sabato 21 febbraio 2009

Franco Branciaroli con Don Chisciotte

“Si imita per mostrare ciò che si è preso in prestito, per far vedere che non si possiede nulla, come gesto di umiltà”. Questo l’incipit con cui Franco Branciaroli introduce il suo personalissimo Don Chisciotte. L’attore milanese si cela dietro le voci, le movenze e i vizi di Vittorio Gassman e Carmelo Bene e attraverso loro, svela i propri Don Chisciotte e Sancho Panza. In realtà però il suo vero scopo è quello di tracciare una linea ideale tra realtà e immaginazione, tra platea e palcoscenico, tra un tempo finito (quello dello spettatore) e un tempo eterno (quello dei simboli, dell’arte, della morte), fra se stesso e quei due e, in fin dei conti, è di se stesso che ci parla. Ecco allora che il Chisciotte e il suo scudiero vanno contro i mulini a vento, scrivono lettere immaginarie, bevono esclusivamente “biondo amico della notte” il primo e gin il secondo, con divertita scioltezza. Del Don Chisciotte ‘paladino contro l’ingiustizia’ rimane ben poco, se non un’interpretazione della finzione-realtà mai umile, ma giustamente in perenne movimento, come un viaggio da errante. Mentre Branciaroli "fa le voci": quella di Gassman, tutta di diaframma e quella di Bene, tutta nasale, improvvisamente salta in mente la potente similitudine che l’attore riporta in scena. Quel sottotesto dello spettacolo che lui stesso, meglio di chiunque altro, sa affermare: “Il Cavaliere dalla triste figura impersona la deriva, l’ultima spiaggia cui viene costretto il teatro. Rischiamo non più di vedere un’osteria come fosse un castello, ma di vedere un’osteria come fosse un teatro.” Da qui quindi possiamo partire per farci guidare dalla suggestiva scena disegnata da Margherita Palli e dall’atmosfera ricreata dalle splendide luci di Gigi Saccomandi, in cui, in perenne sintonia tra loro, spiano prima, vivono poi, un aldilà sì promettente, ma grazie a un aldiquà, dove i Maestri vengono, sin da subito, dimenticati.






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