venerdì 19 dicembre 2008

Gomorra - Roberto Saviano, Mario Gelardi

Una Gomorra di camorra. Genesi del nostro vivere quotidiano. La versione teatrale del libro di Roberto Saviano porta in scena solo cinque (tutti maschili) dei personaggi del romanzo, più la rappresentazione dello stesso autore, interpretato da Ivan Castiglione. Nella versione cinematografica di Matteo Garrone (Estate romana, L’imbalsamatore, Primo amore) in cui, più che le singole vicende umane, era il clima di terrore che si respirava nell’intera durata della proiezione, era il nodo alla gola che caratterizzava il film, a teatro invece, sono le singole storie, i singoli uomini a farla da padrone. Un continuo rincorrersi di personaggi e storie. Dove le maschere (mai come in questo caso reali) si superano, si affiancano, si fermano ad ansimare per la fatica. Dopo e grazie al successo editoriale di Gomorra, il compito di una trasposizione teatrale è quella di andare oltre il libro. Il Saviano che torna a Casal di Principe a parlare in piazza, in quella piazza ostile, in cui ci sono gli uomini che lo vorrebbero “altrove”, che vorrebbero chiudergli la bocca, ci sembra un buon escamotage per raccordare le singole storie, di farle vivere in un universo più assoluto. Un segno di speranza in una realtà priva di rinascita. L’aria da bravo ragazzo, ingenuo ma convinto, grillo parlante attivato dalla coscienza, invece, un po’ meno. La città immaginata dallo scenografo Roberto Crea, sempre in costruzione o sempre in decadenza, riporta bene in scena il disfacimento di un luogo, parafulmine di un’intera nazione. Una nota a parte ci piace regalarla a Ernesto Mahieux, egregiamente calato nella parte del sarto (nel film di Garrone interpretato da Salvatore Cantalupo) che umiliato dalla camorra, si ritrova in una fabbrica clandestina gestita da un prestanome dei boss della camorra a confezionare abiti che indosseranno le star di Hollywood. a confezionare abiti che indosseranno le star di Hollywood.____________________________________________________________________ _______________________________________________________________________________________________________________________________Ci sono due livelli di racconto, quello più istintivo, animalesco, violento, costituito dal braccio armato della camorra e quello imprenditoriale, che non si sporca mai le mani direttamente, che coordina a distanza e che ha interessi in tutto il mondo. Tutti e due ci interrogano da vicino.




mercoledì 10 dicembre 2008

Enrico IV - Ugo Pagliai Paola Gassman

Dopo dodici anni di vera follia, il re, risvegliato dalla sua condizione, prende coscienza che “tutto era finito”: che era invecchiato senza aver vissuto la sua vita. “Era arrivato con una fame da lupo a un banchetto bell’e sparecchiato”. “Preferii restare pazzo e vivere con più lucida coscienza la mia pazzia”, in contrasto “con chi vive agitatamente, senza saperla e senza vederla la sua pazzia”. Nell’allucinante monologo del finale, la follia appare come saggezza e la saggezza come inconsapevole follia. Il gioco delle parti. Il concetto freudiano per cui “la normalità non esiste”, convive con l’inquietante consapevolezza di essere per gli altri qualcosa di molto diverso da quello che noi siamo per noi stessi. Tutto ruota intorno all’inestinguibile contemporaneità del disagio esistenziale, della ricerca di un’autenticità. Il delitto compiuto ai danni del rivale in amore Belcredi, sarà così il gesto estremo, l’inevitabile resa che condanna per sempre alla parte di Enrico IV il nostro protagonista, il quale avrebbe dovuto ricominciare a vivere e che invece è stato costretto dal suo autore a scontare la pena di essere re folle per sempre, nel suo inferno personale. Una nota a parte ci piace dedicarla alla scenografia realizzata da Graziano Gregori. Parte essenziale di questo spettacolo, originale in quanto a funzionalità, ci fa spiare la pazzia di Enrico in tutte le sue sfumature. Grazie a ‘quinte armate’, la scena, viene vivisezionata a più scomparti, dove le singole maschere sono impossibilitate a scrutare le ragioni delle scelte altrui. Sia all’interno di essa, che ai suoi margini, vediamo i personaggi affannarsi dentro una scatola claustrofobica fatta di muri. Si muovono come marionette tenute in vita solo dai fili insondabili del caso. Il sipario poi, calato in scena poco prima del finale, intrappolerà Enrico in un al di qua, in cui non è difficile immedesimarsi.









Alberto Massazza in Canti Orfici di Dino Campana

Foyer Teatro Morlacchi - lunedì 24 novembre

Soltanto un pazzo, soltanto un poeta!
Attraverso l'interpretazione del testo vengono messe in scena le vicissitudini artistiche e biografiche di Dino Campana, vero cane sciolto della poesia italiana del primo novecento ( "unico vero pazzo" com'ebbe a dire il critico Carlo Bo.) Direttamente dalla parola campaniana scaturisce la sua vicenda biografica fatta di disagio psichico, contraddizione religiosa e alienazione sociale.





Ringraziamo Stefano Dottori per le foto.