mercoledì 10 dicembre 2008

Enrico IV - Ugo Pagliai Paola Gassman

Dopo dodici anni di vera follia, il re, risvegliato dalla sua condizione, prende coscienza che “tutto era finito”: che era invecchiato senza aver vissuto la sua vita. “Era arrivato con una fame da lupo a un banchetto bell’e sparecchiato”. “Preferii restare pazzo e vivere con più lucida coscienza la mia pazzia”, in contrasto “con chi vive agitatamente, senza saperla e senza vederla la sua pazzia”. Nell’allucinante monologo del finale, la follia appare come saggezza e la saggezza come inconsapevole follia. Il gioco delle parti. Il concetto freudiano per cui “la normalità non esiste”, convive con l’inquietante consapevolezza di essere per gli altri qualcosa di molto diverso da quello che noi siamo per noi stessi. Tutto ruota intorno all’inestinguibile contemporaneità del disagio esistenziale, della ricerca di un’autenticità. Il delitto compiuto ai danni del rivale in amore Belcredi, sarà così il gesto estremo, l’inevitabile resa che condanna per sempre alla parte di Enrico IV il nostro protagonista, il quale avrebbe dovuto ricominciare a vivere e che invece è stato costretto dal suo autore a scontare la pena di essere re folle per sempre, nel suo inferno personale. Una nota a parte ci piace dedicarla alla scenografia realizzata da Graziano Gregori. Parte essenziale di questo spettacolo, originale in quanto a funzionalità, ci fa spiare la pazzia di Enrico in tutte le sue sfumature. Grazie a ‘quinte armate’, la scena, viene vivisezionata a più scomparti, dove le singole maschere sono impossibilitate a scrutare le ragioni delle scelte altrui. Sia all’interno di essa, che ai suoi margini, vediamo i personaggi affannarsi dentro una scatola claustrofobica fatta di muri. Si muovono come marionette tenute in vita solo dai fili insondabili del caso. Il sipario poi, calato in scena poco prima del finale, intrappolerà Enrico in un al di qua, in cui non è difficile immedesimarsi.









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