giovedì 26 febbraio 2009

ARTICOLI DEL BLOG

GIORNALE DELL'UMBRIA 21 febbraio 09

PIACERE MAGAZINE marzo 09

Happy Family di e con Alessandro Genovesi

All’interno di un teatro per osservare il turbinio di personaggi creati dalla mente affollata di uno scrittore. Alessandro Genovesi pirandellianamente sul palcoscenico con le sue neonate creature, recita il ruolo del giovane autore alle prese con una trama che gli si forma in testa e prende vita immediatamente sul palcoscenico. “Happy Family” si fa godibile grazie a un’ottima idea drammaturgica con taglio cinematografico, dialoghi veloci, brevi monologhi, fa vivere la commedia di leggerezza che si intreccia lungo molte vite per raccontare una quotidianità di ordinaria nevrosi, paura della solitudine, insicurezze di ogni tipo, bisogno d’amore. Già, dell’amore in primo luogo, dell’infinita possibilità di incontrarsi e delle piccole e grandi angosce contemporanee. Ma la vera bravura di Genovesi sta nel mettere a fuoco e dialogare con le sfumature dei sentimenti umani, di giocarci, di suscitare emozioni per poi abbandonarle e di nuovo riprenderle, passando in un attimo dal divertimento alla commozione più sfacciata. Sa inventare personaggi che lascia liberi di dissentire, commentare, intervenire con cori nell’azione, persino di pretendere modifiche alla parte, finché, pedalando verso il proprio destino, egli a sua volta si mescola definitivamente con loro. Genovesi non lascerà però mai la doppia veste di personaggio-autore, implicato nella commedia e allo stesso tempo coinvolto e appassionato nel codificarla. Scruterà difetti e debolezze umane che tramuterà in poesia scacciando per un po' il terrore quotidiano di vivere a metà, di essere scontati e soli. Il vero insegnamento arriverà poi dal proprio cane che pensa in francese, interpretato dal divertente e divertito Jean-Cristophe Potvin. Scoprirà anch’esso il vero amore ma sarà l’unico capace di seguire il proprio istinto fino in fondo.






sabato 21 febbraio 2009

Franco Branciaroli con Don Chisciotte

“Si imita per mostrare ciò che si è preso in prestito, per far vedere che non si possiede nulla, come gesto di umiltà”. Questo l’incipit con cui Franco Branciaroli introduce il suo personalissimo Don Chisciotte. L’attore milanese si cela dietro le voci, le movenze e i vizi di Vittorio Gassman e Carmelo Bene e attraverso loro, svela i propri Don Chisciotte e Sancho Panza. In realtà però il suo vero scopo è quello di tracciare una linea ideale tra realtà e immaginazione, tra platea e palcoscenico, tra un tempo finito (quello dello spettatore) e un tempo eterno (quello dei simboli, dell’arte, della morte), fra se stesso e quei due e, in fin dei conti, è di se stesso che ci parla. Ecco allora che il Chisciotte e il suo scudiero vanno contro i mulini a vento, scrivono lettere immaginarie, bevono esclusivamente “biondo amico della notte” il primo e gin il secondo, con divertita scioltezza. Del Don Chisciotte ‘paladino contro l’ingiustizia’ rimane ben poco, se non un’interpretazione della finzione-realtà mai umile, ma giustamente in perenne movimento, come un viaggio da errante. Mentre Branciaroli "fa le voci": quella di Gassman, tutta di diaframma e quella di Bene, tutta nasale, improvvisamente salta in mente la potente similitudine che l’attore riporta in scena. Quel sottotesto dello spettacolo che lui stesso, meglio di chiunque altro, sa affermare: “Il Cavaliere dalla triste figura impersona la deriva, l’ultima spiaggia cui viene costretto il teatro. Rischiamo non più di vedere un’osteria come fosse un castello, ma di vedere un’osteria come fosse un teatro.” Da qui quindi possiamo partire per farci guidare dalla suggestiva scena disegnata da Margherita Palli e dall’atmosfera ricreata dalle splendide luci di Gigi Saccomandi, in cui, in perenne sintonia tra loro, spiano prima, vivono poi, un aldilà sì promettente, ma grazie a un aldiquà, dove i Maestri vengono, sin da subito, dimenticati.






mercoledì 11 febbraio 2009

Filumena Marturano con Lina Sastri e Luca De Filippo

Se Filumena non sa piangere è perché la miseria e la durezza del vivere raggelano. Icona degli umili, dei disperati, la più famosa popolana napoletana, viene sfruttata e costretta a rimuginare il suo passato, la povertà che l’ha generata, le umiliazioni che ha dovuto patire e con le quali si è fatta donna. Francesco Rosi mette in scena la commedia di Eduardo con rigore, consapevole della grandissima forza del testo, dell’intreccio che avvince, dei colpi di scena che emozionano. Purtroppo del suo lavoro rimarrà ben poca traccia. Il testo sa vivere di luce propria a dispetto delle scelte registiche. Luca De Filippo sarà per tutto lo spettacolo imbrigliato dentro il proprio personaggio. Fedelissimo al testo, non ne uscirà mai fuori. Neanche quando ci si aspettava uno scatto recitativo subito dopo la propria scoperta del neonato sentimento paterno. Il realismo poetico del mondo di Eduardo rivivono, invece, in Antonella Morea e Nicola di Pinto, caratteristi che, divertendo, tengono in pugno le file della trama. Sanno felicemente rendere concrete le loro gag, tutte napoletane, filosofeggiando intorno a una “tazzuriella de cafè”. La servitù, come i figli, beneficiano delle felici divagazioni di Eduardo. “Filumena Marturano” è un testo di intatta freschezza, estremamente attuale, coinvolgente, che ha la sua forza primaria di una donna che lotta per affermare la propria dignità di donna e madre. Lina Sastri, fa della sua Filumena una sorta di Medea che lotta per vincere non tanto sull'uomo che continua a umiliarla, ma per vincere la battaglia della vita. Varie volte, durante i suoi lunghi monologhi, ci affiorava alla mente, l’eroina del mondo classico. La Sastri, si esprime in un dialetto più chiuso e ostico, difficile da comprendere, in cui mette in evidenza la diversa condizione sociale, di questa Filumena. È il linguaggio che la differenzia, la rende passionale e reale. Monologhi che tutti, in scena e in sala, ascoltano in religioso silenzio. Come non essere vinti dai ricordi di quell’infanzia, quando su monito del padre, viene invitata ad andarsene. Filumena ci racconta il suo sentirsi addirittura attanagliata dai sensi di colpa, quando per fame, allungava la forchetta, nell’unico piatto messo al centro del tavolo, dove la famiglia si sfamava. La magia di Eduardo, a quasi venticinque anni dalla sua scomparsa non si esaurisce. Sentimenti e stati d’animo ottimamente tradotti anche nella suggestiva scenografia di Enrico Job, anch’egli, recentemente scomparso. Un interno di casa Soriano, rinchiuso in una gabbia a maglie intrecciate, dove le ragioni umane si incontrano e scontrano, osservate sullo sfondo, da una Napoli di età angioina. Questo il terreno impervio che Filumena combatterà, vincerà, per poi liberarsi in pianto. Applausi più e più volte incalzanti.